l divario fra le risorse finanziarie di cui dispone attualmente l’Unione Europea e quelle di cui avrebbe bisogno per realizzare i suoi ambiziosi progetti – dalla difesa comune all’autonomia
energetica, dalla transizione digitale al potenziamento delle infrastrutture – è enorme. Nel suo rapporto sulla competitività, Mario Draghi ha stimato che servirebbero circa 800 miliardi di euro all’anno per rendere competitiva l’economia europea. Il rischio che il gap di investimenti persista, minando il raggiungimento degli obiettivi dell’Ue, appare molto alto.
Che cosa si può fare per colmarlo? Una parte importante dell’attuale dibattito sul futuro dell’Europa ruota attorno a questo interrogativo. Negli ultimi mesi sono state avanzate diverse proposte, più o meno nuove. Alla recente conferenza di Monaco, la presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, ha proposto di attivare la clausola di salvaguardia (escape clause) per spese aggiuntive nella difesa, esborsi che verrebbero così in parte scomputati dal calcolo del deficit. Nel suo rapporto, Mario Draghi ha posto grande enfasi sull’emissione di titoli di debito comune per finanziare un nuovo fondo di investimenti sul modello del Next Generation EU. Si è anche riacceso il dibattito sulla riforma e l’accrescimento del bilancio comunitario in vista di un trasferimento di risorse su politiche infrastrutturali e a sostegno dell’industria.
La “Bussola della Competitività” pubblicata dalla Commissione a inizio febbraio ha inoltre rilanciato il progetto dell’Unione dei mercati dei capitali – ribattezzata Unione dei risparmi e degli investimenti – che mira allo sviluppo delle fonti di finanziamento non bancarie e all’incremento dei flussi finanziari transnazionali nell’Ue. Anche il rapporto Draghi e quello
presentato da Enrico Letta (relativo al completamento del mercato unico) attribuiscono grande importanza a questo progetto, considerandolo fondamentale per mobilitare i capitali privati necessari agli investimenti nei progetti strategici dell’Unione. Dal suo varo nel 2015, il progetto ha conosciuto solo limitati progressi. I mercati dei capitali dell’Ue sono oggi
ancora molto più frammentati di quelli degli Usa. In tal senso, molto ha pesato l’opposizione di gruppi di interesse pubblici e privati, contrari a un trasferimento a livello comunitario di una parte delle competenze regolatorie e in materia di vigilanza.
I rapporti Letta e Draghi offrono una serie di proposte e suggerimenti per far avanzare il progetto, al fine di rilanciare la competitività e la crescita. Entrambi i rapporti raccomandano, come uno degli elementi portanti per rendere più dinamici e integrati i mercati dei capitali, uno sviluppo della “cartolarizzazione”, tecnica finanziaria attraverso cui gli operatori economici cedono attività finanziarie indivise e illiquide generanti flussi di cassa, come i prestiti bancari, ad altri soggetti. Negli ultimi quindici anni l’Ue ha regolamentato la cartolarizzazione in maniera alquanto stringente, considerando l’utilizzo eccessivo di questo strumento una delle principali cause della crisi finanziaria del 2008. I rapporti Draghi e Letta sostengono tuttavia che le regole comunitarie sulla cartolarizzazione siano divenute troppo restrittive: l’Unione Europea avrebbe “ingessato” i bilanci degli istituti di credito, privando le imprese di utili fonti di finanziamento. Di qui una proposta di riforma della normativa — condivisa dalla Commissione e già avallata dal Consiglio Europeo — che mira a facilitare il ricorso a questa tecnica finanziaria per alleggerire i bilanci delle banche e sostenere così le imprese europee.
I due rapporti trattano anche dei sistemi pensionistici, identificando nello sviluppo della
previdenza complementare un mezzo importante per mobilitare ulteriori risorse in favore
delle aziende europee, favorendo al contempo la formazione di una più cospicua pensione integrativa per i cittadini. L’introduzione delle agevolazioni fiscali necessarie per orientare il
risparmio privato verso la previdenza complementare dipende però dagli Stati membri, i quali hanno una competenza primaria in materia fiscale. Sia Draghi che Letta prendono anche in esame il ruolo e la struttura di ESMA, l’agenzia europea di vigilanza sui mercati finanziari. Oggi l’ESMA svolge primariamente una funzione di coordinamento tra le diverse autorità nazionali.
Ambedue i documenti propongono un trasferimento di potere dall’ambito statale a quello
comunitario, immaginando un’agenzia di vigilanza europea unica (sul modello della SEC
americana) o una struttura a due livelli (come quella della vigilanza bancaria) in cui solo i soggetti più significativi finirebbero sotto la diretta competenza di ESMA. Allo stesso modo, i documenti prevedono una riforma degli organi decisionali dell’agenzia, delineando una
struttura di governance che darebbe ai membri di nomina europea più rilevanza di quelli
di nomina nazionale. È probabile che questa proposta continui a incontrare forti resistenze politiche e a suscitare riserve di carattere giuridico sui poteri e la discrezionalità attribuibili a un’agenzia europea.
Il rapporto Draghi sottolinea quindi come il completamento dell’Unione Bancaria sia
indispensabile per lo sviluppo di autentici operatori del credito di dimensione continentale, a fronte della perdurante opposizione di alcuni Stati alla creazione di un fondo di garanzia comune per tutti i depositi europei (EDIS). Per superare questo ostacolo, l’ex Presidente della BCE propone di dar vita a un fondo europeo che copra unicamente le banche che operano in maniera significativa in più Stati; tale fondo sarebbe finanziato dagli istituti di credito interessati. Le banche che agiscono primariamente in un singolo Paese membro rimarrebbero invece coperte da meccanismi di garanzia nazionali.
Questa ipotesi di riforma prevede infine che gli istituti di credito di “caratura” continentale vengano assoggettati a una giurisdizione a sé stante, in modo da avere uniformità e
chiarezza nell’applicazione delle molteplici norme riguardanti il settore.
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