Sette milioni di donne in Italia sono impiegate nel settore privato, secondo le rilevazioni Inps del 2023. «Le aziende, spinte da vari fattori, cercano di offrire qualcosa in più del semplice salario. Si presta più attenzione al tema della conciliazione vita-lavoro. Negli ultimi dieci anni c’è stato un incremento delle forme di welfare aziendale, anche con la finalità di promuovere la parità di genere» spiega Valentino Santoni, ricercatore di Percorsi di secondo welfare.
Una donna su 5 abbandona il lavoro dopo il primo figlio, una su due dopo il secondo. Cosa possono fare le imprese per contrastare il fenomeno?
L’obiettivo sarebbe quello di alleggerire il carico che grava sulle lavoratrici. Usare il welfare aziendale per agevolare l’accesso ai servizi, in particolare quelli di cura, potrebbe avere effetti positivi sull’occupazione femminile.
Come possono le imprese promuovere la parità attraverso il welfare aziendale?
Gli strumenti sono tanti: maternità, congedi, permessi, servizi per l’infanzia, assistenza per anziani e disabili, flessibilità, smart working. C’è però ancora una distorsione di fondo, l’idea che le donne devono avere più tempo per poter svolgere il lavoro di cura. Questo approccio è insufficiente. Per favorire la parità bisogna prevedere che siano gli uomini a sobbarcarsi gli impegni familiari. Sui congedi di paternità il settore privato è molto indietro anche perché la normativa nazionale di riferimento prevede soli 10 giorni.
In Spagna nel 2023 è stata approvata una legge che introduce il congedo mestruale, tre giorni al mese di permesso per le donne affette da dismenorrea. In Italia una proposta simile è ferma in Parlamento. Come vanno le cose nel settore privato?
È arrivato il comunicato stampa di un’azienda (Ciaodino) che annuncia, in vista dell’8 marzo, l’introduzione del congedo mestruale: 8 ore di permesso da usare nella settimana del ciclo. Ma si tratta di casi rari, spesso inseriti in operazioni di rafforzamento del brand aziendale.
Con Next Generation Eu è stata finanziata la Certificazione della la parità di genere per le imprese, chi la ottiene riceve agevolazioni fiscali e punteggi più alti in bandi e appalti. È un meccanismo virtuoso?
È un passo avanti nella lotta alla discriminazione di genere. Ma ci sono delle criticità. Una di queste è l’eccessiva burocratizzazione del processo. Per ottenere il bollino si richiede uno sforzo amministrativo importante che necessita spesso il sostegno di consulenti privati. Gli aspetti formali rischiano di oscurare quelli sostanziali: riduzione del gender pay gap, equilibrio di genere ai vertici, congedi di maternità e paternità adeguati alle esigenze.
Il welfare aziendale può essere visto in antitesi a quello pubblico e universalistico?
Il modo anglosassone di intenderlo, a mio avviso, non dovrebbe essere preso a modello. Le aziende non pagano tasse sui contributi extra salariali. Questo implica che lo Stato si ritrova ad avere minori risorse da investire nei servizi pubblici. Per compensare questo effetto, i benefit avrebbero più senso se orientati ai servizi.
Qual è invece il trend?
Concepirli come semplici buoni acquisto, soldi che finiscono nel mercato dei beni di consumo, senza un reale impatto sui servizi di cura, assistenza, formazione. Viene privilegiato l’aspetto commerciale a discapito di quello sociale. Le recenti modifiche del governo alla normativa sui fringe benefit (buoni acquisto e buoni benzina) hanno portato la soglia massima di questi contributi da 258 euro annui a mille per i lavoratori senza figli e 2mila per quelli con figli. Così si rafforza una visione del welfare aziendale come forma di reddito non tassato e non come strumento con finalità sociali.
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