Intervista a Barbara Cimmino, a capo di un Gruppo di 900 dipendenti, con quota di personale femminile pari al 93% «Un buon equilibrio lavoro-famiglia ha un’importanza cruciale. Supporto ai collaboratori con lo smart working»
Con circa 900 dipendenti nel mondo e un’incidenza di donne del 93%, Yamamay è impegnata nelle politiche di welfare e sostenibilità. Due caratteristiche distintive del marchio per Barbara Cimmino, co-fondatrice di Yamamay e vice presidente di Confindustria, con delega all’internazionalizzazione e all’attrazione di investimenti.
Le donne che fanno impresa sono in grado di segnare una differenza nella governance e nella gestione del personale?
Abbiamo avviato azioni significative nella direzione di una maggiore attenzione alle politiche di welfare, ma c’è ancora molto da fare. In particolare sono le politiche per il Sud che necessitano di ulteriori sforzi: c’è ancora un ampio margine di popolazione da inserire nel mondo del lavoro.
È vero però che c’è un’attitudine femminile nel gestire più attività, nel fare collegamenti e passare dalla quotidianità delle questioni più pratiche a tematiche più ampie. Questa flessibilità e facilità che le donne hanno di passare da un compito all’altro rappresentano un grande vantaggio. Inoltre, se si è abituati a lavorare in un team di donne, si comprende davvero, con grande consapevolezza, ciò che significa trovare un equilibrio tra vita professionale e familiare. Si possiede l’immediata intuizione di quelle che sono le reali responsabilità quotidiane, come avere un figlio a scuola che ti aspetta. Possedere un’esperienza di come gestire una famiglia dove più generazioni incrociano i loro bisogni è fondamentale per acquisire competenze che poi sono utili anche nel contesto lavorativo.
In un’azienda dove le donne rappresentano l’ampia maggioranza del personale, quanto sono rilevanti i temi della conciliazione?
La maggioranza femminile dei dipendenti di Yamamay è dovuta all’incidenza dei negozi, dove naturalmente il personale che serve le clienti è in maggioranza composto da donne.
Nella sede centrale dell’azienda, a Gallarate, il rapporto di genere tra i 160 dipendenti è più equilibrato. In questo quadro, nelle scelte di welfare aziendale hanno una particolare rilevanza i temi della conciliazione lavoro famiglia.
Ad esempio, nel team di ricerca e sviluppo dove ho sempre lavorato la persona di riferimento per me è impiegata in telelavoro dal 2009. Nell’area che si occupa di progettazione e creatività si è sempre goduto di una notevole flessibilità. Per questo, durante il periodo del Covid, abbiamo rapidamente adottato il lavoro smart e il passaggio è stato abbastanza veloce; in meno di un mese, infatti, avevamo già ricevuto per tutti i portatili necessari e le postazioni erano pronte perché anche le modelliste e le disegnatrici potessero continuare il lavoro da remoto. Fin dal primo giorno di lockdown, le persone sono state operative da casa, grazie al fatto che tutte le applicazioni era già impostate per supportare il lavoro a distanza. L’organizzazione del lavoro ha sempre tenuto in considerazione anche gli aspetti legati alla vita familiare e questo, in quella situazione, si è rivelato un vantaggio. Tuttavia il sistema di lavoro per obiettivi deve essere valutato caso per caso; dipende molto dal tipo di progetto che si deve portare avanti e dalla composizione del team. Se ci sono donne molto giovani nel gruppo, come nel caso del mio team, più tempo trascorrono in ufficio, meglio è. Il loro apprendimento si basa infatti anche su una continua e preziosa interazione con le persone più esperte e con il contesto di lavoro.
I progetti di inserimento e crescita professionale delle donne hanno già percorso molta strada, quali possono essere i prossimi passi?
La vera svolta di questi anni è rappresentata dalla personalizzazione, in particolare per quanto riguarda i percorsi di carriera, gli orari e le situazioni lavorative. Il mondo si sta sempre più orientando verso una completa conciliazione tra lavoro e vita privata. Siamo stati costretti ad abbandonare gli schemi della mia generazione, dove si iniziava un lavoro in un’azienda e lo si cambiava massimo due o tre volte nel corso della vita. Oggi posso osservare come il cambiamento continuo sia visto dai giovani come un elemento di normalità, positivo. Si è sempre alla ricerca della soluzione che consenta di bilanciare meglio le ambizioni professionali con la vita personale. Questo è l’aspetto che è cambiato in modo radicale e questa capacità di cambiare per ricercare il meglio possibile per sé è ancora più importante per le ragazze. Ieri, ho avuto una conversazione con una giovane del team digital di Yamamay che ha scelto di cambiare. Le ho detto quanto fossi felice per lei. Per me la cosa più importante è che continui a essere un’ottima ambasciatrice di Yamamay e che porti con sé l’esperienza vissuta con noi. Le ho detto di avere coraggio nel cambiare percorso, di rimettersi a studiare e di esplorare nuovi orizzonti perché, se non lo fa ora, potrebbe impiegare trent’anni per capire la sua strada.
In questa nuova logica, ha ancora un senso definire delle quote rosa per i ruoli apicali delle organizzazioni?
Le quote rosa sono servite in Italia per smuovere la situazione iniziale, ma sono una profonda sostenitrice della meritocrazia quindi, una volta innescato un cambiamento, mi auguro che le generazioni future debbano basare tutta la loro crescita e il loro sviluppo professionale solo sulla base del del merito. Altrimenti si rischia di far danni perché, collocando una donna in una posizione che in realtà non è in grado di sostenere, si discreditano poi le altre.
Importante è anche integrare generazioni diverse, farle collaborare insieme, perché permette di stare dentro al divenire delle cose e accresce moltissimo anche i senior. I gruppi di lavoro dovrebbero anche essere composti da persone con background diversi anche per affrontare meglio i cambiamenti che porterà l’intelligenza artificiale in azienda che richiederà sicuramente più sforzi e competenze trasversali.
Quanto ha influito sul riconoscimento del ruolo di vice presidente di Confindustria il fatto di essere un’imprenditrice?
Quando si è aperta la fase per la successione del presidente di Confindustria abbiamo avuto modo di ascoltare tutti i candidati presidenti invitandoli a Varese. Una volta eletto, Emanuele Orsini ha chiesto che io assumessi la delega per l’export e l’attrazione degli investimenti, in un momento in cui il mondo si sta riconfigurando.
Considero questo periodo della mia vita come un tempo di restituzione e per questo, con grande libertà propositiva, mi impegno facendo ricorso all’esperienza e alle competenze che provengono dai miei studi e dal mio lavoro.
Molto devo al presidente della territoriale di Confindustria Varese, Roberto Grassi, che ha visto in me un potenziale che io stessa non immaginavo. È una di quelle persone che hanno la capacità di valorizzare il potenziale che è dentro ognuno di noi ed è stato fondamentale perché questo riconoscimento ha rappresentato un grande impulso per me. Quando si innesca questo meccanismo di utilizzo del proprio potenziale ci si sente veramente realizzati e si dà il massimo nelle attività che appassionano.
In azienda ha ricoperto diverse posizioni apicali: come è cresciuta professionalmente?
È stato molto naturale iniziare a lavorare in azienda già a 19 anni, conciliando lavoro e studio. Questa dualità mi ha allenato a gestire più impegni contemporaneamente.
Mi sono sposata presto e ho avuto i figli in giovane età cercando di tenere tutto insieme. Figlia di un papà del Sud, in qualche modo su di me c’è stata un’aspettativa diversa, anche il contesto sociale genera una propensione che favorisce la leadership maschile e non si è sempre consapevoli di questi aspetti che condizionano fortemente le scelte personali. A volte si impiega una vita intera per capire e riconoscere le proprie capacità.
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