Start up, il 90% degli investimenti privati va al Nord Italia


 C’è una notizia che è passata in sordina, eppure svela – senza girarci troppo attorno – a che punto è l’innovazione nel sud Italia. Innovazione imprenditoriale s’intende, quella inseguita e spesso sbandierata, ma di cui raramente si ha riscontro concreto. Perché l’innovazione non si esaurisce con l’applicazione di buone e nuove pratiche aziendali, ma ha a che fare con la nascita di modelli di impresa inediti, capaci di sfidare lo status quo o, per lo meno, di scuoterlo quanto serve. Insomma, l’innovazione coincide con la nascita di start up che, qui al Sud, non riescono ancora a imporsi.

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La notizia, pubblicata da Wired, riprende uno studio portato avanti da P101, una delle più importanti società di venture capital in Italia. E in buona sostanza dice questo: nella nostra penisola chi fonda una start up arriva soprattutto da tre università italiane. E nessuna di queste si trova nel Meridione. Il primato spetta infatti a Politecnico di Milano, Alma Mater di Bologna e Bocconi.

Lo studio, State of Italian VC 2024, copre un quinquennio, cioè dal 2020 al 2024, e analizza il valore degli investimenti intercettati dalle start up in ognuna delle quattro fasi di sviluppo (pre-seed, seed, early stage e late stage). Quello che emerge è che le start up nate negli incubatori di PoliMi, UniBo e Bocconi hanno intercettato circa il 90% degli investimenti totali del venture capital in Italia. Un capitale di 6,2 miliardi di euro su un totale di 6,8 miliardi. E le università del sud Italia non arrivano nemmeno tra le prime cinque: gli incubatori universitari al Sud non presentano alcuna attrattiva per gli investitori.

Quindi, negli ultimi cinque anni, mentre le start up nel nord ovest hanno raccolto 5,3 miliardi di euro (con Milano in testa: 4,1 miliardi di euro tra Polimi e Bocconi), il resto di Italia – fatta eccezione per Alma Mater di Bologna – si è presa le briciole: a Napoli non si superano i 95 milioni di euro, a Palermo i 27 milioni. E le isole, insieme, non vanno oltre gli 80 milioni di euro di capitale raccolti. Un dato che non si può sottovalutare, perché una start up senza investimenti non sopravvive oltre i primi tre anni a prescindere dal valore dell’idea. Più sono alti gli investimenti, maggiori saranno le probabilità di successo: ma finora, alle start up meridionali, hanno creduto in pochi.

Il sud dietro al nord, anche in Europa

La disparità tra nord e sud, però, interessa tutta l’Europa. Lo studio di P101 infatti fa emergere un forte disinteresse, da parte degli investitori internazionali, nei confronti di tutto il sud Europa. In sintesi il mercato dell’Europa meridionale non interessa perché piccolo e poco attrattivo, il che si traduce in un dirottamento dei capitali verso le aree centrali europee. L’Italia, com’è ovvio, non è da meno. Il mercato del venture capital che coinvolge la nostra penisola è infatti soprattutto domestico: il 69% di chi investe in start up italiane è italiano, gli investitori internazionali sono il 31% (mentre in Germania, per fare un esempio, gli investitori internazionali arrivano al 55%). Il resto del mondo, insomma, osserva le start up italiane con poco entusiasmo, e le operazioni del venture capital crollano tanto da aver raggiunto un -9,5% negli ultimi cinque anni – anche se nel resto d’Europa crescono dell’1,5%.

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Il disinteresse internazionale è un’opportunità? Forse. In settori come quello tecnologico, per esempio, lì dove le grandi società di investimento fuggono, c’è più spazio per i player locali. Ma è un’opportunità difficile da cogliere, specie se restringiamo il campo e guardiamo alla disparità geografica all’interno della nostra stessa penisola.

Perché non si investe nel sud Italia

Come riporta Wired, secondo gli analisti di P101 sono almeno due le ragioni che porta i venture capital a escludere il sud Italia nei round di investimento. La prima ragione riguarda lo scarso legame tra università meridionali e imprenditoria, di cui non ci si stupisce se si pensa al tessuto imprenditoriale delle regioni del Sud – composto principalmente da piccole imprese, spesso a conduzione familiare. La seconda ragione, invece, ha a che fare con un preciso bias cognitivo: gli investitori si fidano poco delle università del sud, e questo influisce sulla valutazione delle start up e di chi le ha fondate. Bias cognitivo, pregiudizio potremmo dire. E forse pure una punta di antimeridionalismo?

Daria Costanzo





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