È una cosa che avviene spesso in modo inconsapevole: quando ci trova di fronte ad un grande cambiamento, e la transizione energetica è indubbiamente un grande cambiamento, ci si concentra sulle notizie che lo avvalorano trascurando invece quelle di tenore opposto. Naturalmente, per quanto comprensibile, è un atteggiamento sbagliato, che però non assumiamo di fronte ad una recente notizia che arriva dalla Svezia… La notizia è la dichiarazione di fallimento, per certi versi clamorosa, dell’azienda Northvolt.
Che cosa c’entra con la transizione energetica? Moltissimo, visto che questa start-up svedese, fondata nel 2015 da due ex manager di Tesla, Peter Carlsson e l’italiano Paolo Cerruti, aveva la dichiarata ambizione di diventare un gigante europeo nel comparto della produzione di batterie per le auto elettriche.
Northvolt, finanziamenti per quasi 15 miliardi
La definizione di start-up non deve peraltro ingannare, perché Northvolt si era da subito caratterizzata per le sue grandi ambizioni, accompagnate da argomenti convincenti, quelli che le hanno consentito di rastrellare ingenti quantità di finanziamenti, quasi 15 miliardi di euro garantiti anche da colossi come Volkswagen, Bmw, Blackrock e Goldman Sachs.
Ufficialmente la dichiarazione di fallimento viene spiegata con la cancellazione di diversi ordini per la produzione di batterie da parte dei costruttori automobilistici – ultimo una commessa di BMW del valore di oltre 2 miliardi –, oltre che con l’incapacità di trovare nuovi finanziatori. Ma basta andare sul Web e digitare la parola Northvolt su un motore di ricerca per rendersi conto che il destino del gruppo svedese appariva segnato ormai da mesi.
La possibile quotazione a Wall Street
Un primo grande campanello d’allarme era suonato nel settembre dell’anno scorso quando Northvolt aveva annunciato ben 1600 licenziamenti nelle sue sedi svedesi, ovvero il 20% della sua forza lavoro. Un annuncio clamoroso, considerato che soltanto un anno prima si era parlato della possibile quotazione di Northvolt a Wall Street con un mega collocamento da 20 miliardi di dollari, operazione poi abortita.
Lo scorso novembre, invece, il legame fra Northvolt e gli Stati Uniti è diventato di ben altro tipo, visto che l’azienda era ricorsa al Chapter 11, vale a dire la principale norma americana che consente alle imprese che lo utilizzano di tentare una ristrutturazione a seguito della dichiarazione di fallimento. Una situazione ormai emergenziale, confermata il giorno successivo dalle dimissioni del ceo e co-fondatore di Northvolt, il citato Peter Carlsson.
Nelle mani del liquidatore giudiziale
Adesso, con la dichiarazione di fallimento nella natia Svezia, l’avventura decennale di Northvolt, con le sue grandi ambizioni nella produzione di batterie per la mobilità, deve considerarsi ufficialmente conclusa. Spetterà al liquidatore giudiziale procedere alla vendita delle attività tuttora in corpo all’azienda con l’intento di accumulare risorse finanziare per rimborsare in parte i generosi creditori che, come detto, avevano investito miliardi in Northvolt.
In realtà dei “pezzi” di Northvolt sono stati già rilevati, come la Novo Energy, una joint venture nata con Volvo e da quest’ultima presa in carico interamente a fine gennaio. C’è poi la divisione Sistemi Industriali per i mezzi pesanti di Northvolt, che è stata rilevata a febbraio da Scania (gruppo Volkswagen).
Brutto segnale per l’Unione Europea
Ma, e ci ricolleghiamo con l’assunto di partenza, il fallimento di Northvolt ha una valenza che va ben al di là della parabola dell’azienda svedese. Assume infatti un valore pericolosamente simbolico per un’Europa che cerca drammaticamente di affrancarsi dalla sua dipendenza tecnologica – i sistemi di accumulo non fanno eccezione – nella produzione e nel commercio di elementi essenziali al compimento della sua transizione energetica.
Evidentemente non basta ripetere “produrre e comprare europeo” per risolvere il problema se, come nel caso di Northvolt, i componenti e le materie prime necessari ad avviare l’attività produttiva su larga scala vanno comunque acquistate fuori dell’UE, per i sistemi d’accumulo in primis da Cina e Corea del Sud. E se ci si aggiungono le crescenti incertezze dei committenti, nel caso in questione i produttori europei di auto green, il disastro è purtroppo servito.
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