La terra torna a tremare nei Campi Flegrei, con un sisma di magnitudo 4.4, e la scossa arriva politicamente fino a palazzo Chigi. Perché svela la disattenzione del governo Meloni nei confronti di quel territorio, nonostante un decreto ad hoc approvato la scorsa estate.
Più in generale per il Sud restano ferme risorse economiche importanti. Almeno un miliardo e mezzo, sebbene sia già stanziato, è fermo per la mancata attuazione del decreto Coesione, uno dei fiori all’occhiello della gestione di Raffaele Fitto, quando era ministro del Sud.
La priorità è ora la risposta alla popolazione dei Campi Flegrei. «Sto monitorando costantemente l’evolversi della situazione», ha scritto la presidente del Consiglio sui propri profili social. Il ministro della Protezione civile, Nello Musumeci, ha poi annunciato l’attivazione dello «stato di mobilitazione nazionale», che garantisce la possibilità di usare soldi prima della dichiarazione dello stato di emergenza.
Emergenza perenne
Un passaggio che conferma la strategia della navigazione a vista. Il decreto sui Campi Flegrei risale all’estate del 2024 ed è stato una risposta solo mediatica: non ha spostato di una virgola la situazione, scaricando alcune responsabilità sulla regione Campania.
Del resto come, hanno ricordato i parlamentari campani di Alleanza verdi-sinistra, Francesco Borrelli e Peppe De Cristofaro, «il Mef non ha ancora stanziato i fondi per il controllo degli edifici, 20 milioni per il 2024 e 15 milioni di euro per il 2025». Con tanto di attacco politico: «Per fare le sfilate a Caivano sono tutti pronti, mentre i Campi Flegrei non interessano a nessuno».
Agli atti, al momento, resta la nomina di un commissario straordinario (per un compenso di 100mila euro all’anno tra parte fissa e variabile), Fulvio Maria Soccodato, figura esperta in casi di emergenza, che dal luglio dello scorso anno prova a gestire una situazione complicata. Ma è, appunto, la conferma della “commissarite”, la tendenza a ricorrere ai commissari appena possibile. L’incarico è di lunga durata, scadrà solo nel 2027. Perciò l’esecutivo può prendersela comoda sul provvedimento attuativo, inserito nel decreto post calamità, che prevede «il subentro ordinario» dell’autorità competente al posto del commissario.
La vicenda flegrea è una spia della scarsa attenzione nei confronti del Mezzogiorno. Nel governo Meloni c’è un ministro per le Politiche del mare e uno dedicato alla Protezione civile, Nello Musumeci appunto.
L’ex presidente della regione Sicilia è chiamato a coordinarsi politicamente con il dipartimento affidato a Fabio Ciciliano. Ma non c’è un ministro, né un sottosegretario, per il Sud.
Ufficialmente la delega è nelle mani di Meloni, che è per forza di cose impegnata su vari fronti. Non può essere l’interlocutrice di enti e associazioni. L’inghippo è tutto politico: nel passaggio di consegne tra Raffaele Fitto e Tommaso Foti, sono state trasferite solo le competenze su Pnrr, Affari europei e Politiche di coesione.
La premier, per evitare di prestare il fianco alle polemiche di consegnare il meridione a un piacentino, ha tenuto per sé le delega. Un errore strategico. «Abbiamo sempre ritenuto che fosse importante non spacchettare le deleghe: così si poteva tenere tutto insieme come è stato scelto all’inizio dal governo», dice a Domani Luca Bianchi, direttore della Svimez. «Invece c’è stato un mezzo spacchettamento che ha diviso la gestione delle risorse, che fanno capo alla Coesione, dalla regia politica, che spetta al titolare della delega», osserva Bianchi. Il risultato è che la Zona economica speciale unica è avviata, ma rappresenta una centrale di autorizzazione di investimenti. Al Mezzogiorno manca una regia di politica industriale.
Investimenti fermi
Il vuoto si traduce nel mancato impiego di risorse. Misure come “resto al Sud 2.0”, i contributi per fare impresa nel meridione, sono tuttora bloccate: il mezzo miliardo a disposizione, spalmato sul biennio 2024/2025, non è spendibile perché bisogna emanare il decreto.
Così come resta da definire la modalità di funzionamento per gli interventi infrastrutturali nelle regioni meridionali, con il plafond di un miliardo di euro circa, residuo dell’ex fondo perequativo infrastrutturale, definanziato dal governo Meloni.
Un rebus. Anche perché la decisione di non distribuire le mansioni ad altre figure è legata all’ostinazione di evitare nomine potenzialmente divisive. Così meglio non avere un titolare delle politiche per il Sud.
«L’assenza di un ministero per il Mezzogiorno è l’ennesima prova che il Sud non è una priorità per il governo Meloni. In termini elettorali rappresenta uno dei principali problemi per una destra che si è autodefinita patriota ma che ha provato a spaccare il paese con l’autonomia differenziata», dice a Domani Marco Sarracino, deputato del Pd.
Nelle ultime ore, però, la maggioranza ha esultato per il rilancio del Mezzogiorno, come rivendicato dal deputato di Fratelli d’Italia Saverio Congedo, con la «diminuzione della disoccupazione, al Sud, del 2,9 per cento nell’ultimo trimestre dell’anno scorso».
Ma i conti non tornano. Dall’insediamento dell’esecutivo ci sono stati vari tagli. Il più pesante è arrivato con il dimezzamento di Decontribuzione Sud, che pesava oltre 5 miliardi di euro, a cui si è aggiunto lo svuotamento del fondo perequativo. Un maxi progetto che serviva a migliorare, strade, ponti e scuole nel Mezzogiorno.
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