22 Marzo 2025
Welfare complementare: a che punto siamo?


Da oltre 30 anni, il tema del welfare complementare, indirizzato a costruire un secondo pilastro con l’obiettivo di supportare, nel tempo, la sostenibilità del welfare pubblico è al centro di 3 importanti questioni. Quali? Una nuova legislazione di sostegno, necessaria a regolare questo nuovo universo di interventi, soprattutto per la sanità; l’integrazione tra welfare pubblico e privato, fermo restando il ruolo fondamentale di quello pubblico; la valorizzazione del ruolo della contrattazione, nazionale e decentrata, strumento fondamentale per ampliare la platea dei fruitori del welfare e per la loro tutela. Ma per fortuna quasi tutti i contratti nazionali di lavoro contengono le regole per il welfare previdenziale, sanitario e aziendale: bisogna proseguire su questa strada al fine di garantire le migliori tutele per i lavoratori e la crescita di una produttività socialmente inclusiva per le imprese.

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Sul piano delle politiche sociali abbiamo di fronte una variabile che avrà ricadute dirompenti: l’invecchiamento della popolazione. Che si intreccia, a sua volta, con lo stato delle finanze pubbliche, in una spirale che rischia di far collassare quel che è rimasto dell’esemplare modello europeo del Welfare State.

Dunque, a che punto siamo in Italia?

Da lungo tempo, per la precisione dagli anni ‘90 del XX secolo, è emerso il tema del welfare complementare, indirizzato a costruire un secondo pilastro con l’obiettivo di supportare, nel tempo, la sostenibilità del welfare pubblico.

Questa storia inizia con la serie di riforme del sistema pensionistico e del sistema sanitario nazionale. Nella seconda metà di quel decennio nascono i primi grandi fondi previdenziali contrattuali stipulati da CGIL, CISL, UIL e Confindustria: Fonchim (chimici) e Cometa (metalmeccanici, Fondo che ha tagliato in questi giorni il traguardo dei 500mila iscritti); a quell’epoca, infatti, la previdenza complementare contrattuale nasce in conseguenza dell’avvio del passaggio progressivo dal sistema pensionistico su base retributiva a quello esclusivamente contributivo.

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I fondi sanitari si costituiranno soltanto successivamente.

Con l’andar del tempo, e con l’emersione del tema dell’invecchiamento della popolazione, è divenuta via via più evidente la necessità di allargare lo spettro degli interventi aldilà del capitolo delle pensioni e della sanità.

Finché si è giunti, in tempi più recenti, a estendere il ragionamento fino al complessivo benessere del cittadino-lavoratore, insieme a quello del suo nucleo familiare, per l’intero arco dell’esistenza. Si arriva, così, all’evoluzione del concetto di welfare complementare.

Al tema della previdenza integrativa si aggiungono, nel decennio 2010-2020, nuovi campi di azione: i fondi sanitari integrativi; il long term care, mirato a tutelare le persone nel caso di perdita di autosufficienza; il welfare aziendale fondato su iniziative indirizzate a migliorare la vita privata e lavorativa dei dipendenti, sostenendo il reddito familiare, l’istruzione, la genitorialità, la salute e la conciliazione tra tempo di vita e di lavoro.

Lo sviluppo di queste novità ci porta a tre grandi questioni: una nuova legislazione di sostegno necessaria a regolare questo nuovo universo di interventi, soprattutto per la sanità; l’integrazione tra welfare pubblico e privato, fermo restando il ruolo fondamentale di quello pubblico; la valorizzazione del ruolo della contrattazione, nazionale e decentrata, strumento fondamentale per ampliare la platea dei fruitori del welfare e per la loro tutela.

Ma, prima di affrontare questi punti, analizziamo quale dimensione ha raggiunto questo fenomeno, in particolare sul fronte sanitario.

A introdurre nell’ordinamento italiano i fondi sanitari integrativi fu il D.Lgs. n. 502/1992. Il fine perseguito era di porre le basi per un “secondo livello di assistenza sanitaria” in grado di rappresentare una significativa “integrazione” alle forme assistenziali erogate dal SSN. In seguito, il D.Lgs. n. 229/1999 ridefinì le fonti istitutive legittime, ampliando e diversificando l’offerta di assistenza sanitaria integrativa, grazie a una maggiore attenzione alla contrattazione collettiva. Le esperienze precedenti, infatti, erano fondate sulle società di mutuo soccorso e su accordi di natura aziendale.

Nel periodo tra 2010 e 2020, lo sviluppo del tema nella contrattazione collettiva portò, oltre alla volontarietà dell’iscrizione per il lavoratore dipendente, che è rimasta in alcuni contratti, a stabilire l’obbligatorietà dell’iscrizione ai fondi sanitari di tutti i lavoratori dipendenti della categoria, prevedendo anche la contribuzione obbligatoria interamente a carico dell’impresa.

Così, se nel 2010, 267 fondi registravano 3,3 milioni di iscritti (dato tratto dal Decimo Report di Itinerari Previdenziali), il terzo rapporto del Ministero della Salute del luglio 2024 intitolato “I Fondi Sanitari Integrativi in Italia”, riferito al periodo 2021-2023, conta, nel 2023, 324 fondi con oltre 16 milioni di aderenti. Di questi, oltre 13 milioni sono lavoratori e 2,3 milioni i loro familiari; ancora, tra gli iscritti si contano 516mila pensionati e relativi familiari.

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Tuttavia, vi è una massa di lavoratori che non ha ancora aderito a queste forme di welfare. I dipendenti del settore privato contano, comunque, la quasi totalità delle iscrizioni; per i lavoratori pubblici, solo una porzione minoritaria ha aderito a una di tali forme di welfare: nelle scorse settimane il Governo ha deciso di finanziare la sanità integrativa per il personale della scuola. Un passo avanti che dovrà essere regolato dalla contrattazione.

Che cosa manca, dunque, al sistema del welfare sanitario?

Come accennato sopra, la prima questione è legislativa. Qui manca l’elemento essenziale che ha caratterizzato la nascita e lo sviluppo della previdenza complementare. Ossia, una legislazione che regoli, sancisca e incentivi la massima estensione delle adesioni ai fondi sanitari. Dunque, si rende necessario definire una legislazione di sostegno che metta ordine nelle regole che disciplinano l’esistenza di oltre 300 fondi e ne garantiscano la piena trasparenza: vigilanza dei Fondi, organismi di governance, ambiti di operatività e obbligatorietà dell’iscrizione o incentivi per l’adesione volontaria.

L’altro elemento fondamentale è la contrattazione. Se questa è un’epoca nella quale si tende a dare grande rilievo alla contrattazione di secondo livello, si deve essere consapevoli del rischio che i benefici del welfare complementare si concentrino solo nelle aziende di più grandi dimensioni. Nell’area delle piccole e micro imprese è, evidentemente, più difficile andare aldilà degli elementi contrattuali di base e garantire il versamento dei contributi previsti dalla contrattazione.

Ancora una volta, perciò, va sottolineato che è il contratto nazionale di lavoro il veicolo per l’estensione alla maggior parte dei lavoratori di tutti quegli elementi che aggiungono qualità alla prestazione e favoriscono l’incontro tra domanda e offerta di lavoro soprattutto per le giovani generazioni.

Per fortuna quasi tutti i contratti nazionali di lavoro contengono le regole per il welfare previdenziale, sanitario e aziendale: bisogna proseguire su questa strada al fine di garantire le migliori tutele per i lavoratori e la crescita di una produttività socialmente inclusiva per le imprese.

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