
Non solo il crollo delle Borse mondiali. Ma anche, diversamente dalle attese, un forte deprezzamento del dollaro. I dazi reciproci senza precedenti annunciati da Donald Trump il 2 aprile, che portano il livello tariffario medio imposto dagli Usa ai massimi della storia, hanno mosso le quotazioni del biglietto verde in una direzione inattesa. Segno che i mercati da un lato si aspettano una recessione, dall’altro stanno smettendo di considerare il dollaro un rifugio sicuro. Le conseguenze di lungo periodo potrebbero essere dirompenti. Nel breve, i consumatori statunitensi saranno ancora più danneggiati rispetto a quanto la stessa Casa Bianca si aspettava.
Il rebus del dollaro – Quando un Paese impone dazi sulle importazioni, dice la teoria economica standard, il prezzo dei beni stranieri aumenta per cui cittadini e imprese tendono a comprarne di meno. Questo riduce l’immissione di valuta nazionale sul mercato dei cambi e dunque ne aumenta il valore. Qui poi si parla del dollaro, rifugio su cui usualmente gli investitori puntano quando sui mercati si scatena il panico: anche questo effetto dovrebbe contribuire a rafforzarlo. Rendendo così, tra l’altro, più sopportabile l’impatto delle misure protezionistiche sui prezzi.
Stavolta invece è successo il contrario: il 3 aprile il cambio con l’euro è volato verso quota 1,12, da 1,07 di fine marzo. All’inizio della presidenza Trump, il 20 gennaio, il dollaro era più forte del 7% circa. Il tasso di cambio pesato rispetto alle principali valute estere, fatto 100 il livello dell’1 gennaio, oggi è a quota 94, mostra un grafico dell’Economist.
Perché si indebolisce – Nessun mistero: il punto è che la teoria non è arrivata a prevedere gli effetti di una mossa così dirompente da parte della maggiore economia globale. Dazi nei confronti di tutti i partner commerciali, calcolati con una formula del tutto arbitraria e sulla base di presupposti ideologici e non economici, con finalità che vanno dalla raccolta di gettito all’utilizzo come arma negoziale, minacciano di mandare gambe all’aria il commercio mondiale e in prospettiva arrivano a mettere a rischio lo status del dollaro come valuta di riserva globale.
Per limitarsi al medio periodo, una recessione statunitense e un rallentamento delle altre economie che hanno stretti legami con Washington sono ormai ritenute probabili da molti analisti. Negli Usa, l’eventuale calo del pil andrebbe di pari passo con un nuovo aumento dell’inflazione scatenato dai dazi: venuta meno la concorrenza dei prodotti esteri, le aziende domestiche ne approfitteranno a loro volta per alzare i prezzi. Il risultato si chiama stagflazione, un incubo per la politica e le banche centrali che si ritrovano senza armi visto che quelle di cui dispongono per contrastare l’inflazione (aumento dei tassi) tendono a deprimere ulteriormente la crescita.
La crisi di fiducia – Secondo il premio Nobel Paul Krugman, dietro il crollo c’è anche l’enorme crisi di fiducia scatenata dalle politiche di Trump. “I dazi permanenti sono un male per l’economia, ma le aziende possono, per la maggior parte, trovare un modo per conviverci”, ha spiegato nella sua newsletter su Substack. “Ciò che le aziende non possono gestire è un regime in cui la politica commerciale riflette i capricci di un re pazzo e nessuno sa quali saranno i dazi la prossima settimana, per non parlare dei prossimi cinque anni. In queste condizioni, come si suppone che un’azienda faccia investimenti o prenda qualsiasi tipo di impegno a lungo termine?”. Risultato: meno investimenti in ingresso negli Usa, ulteriore riduzione della domanda di dollari, scivolamento del cambio.
Stangata da 3.800 dollari sui consumatori. I meno abbienti soffriranno di più – Un dollaro più debole fa a dire il vero parte del grande – e poco credibile – piano dell’amministrazione Trump mirato a rivitalizzare l’industria statunitense. Ma lo stesso inner circle del presidente riteneva che nel breve periodo la valuta si sarebbe rafforzata, A gennaio il segretario al Tesoro Scott Bessent, durante l’audizione al Senato per la conferma della nomina, aveva garantito che dopo i dazi (li ipotizzava però al 10%) il dollaro si sarebbe rafforzato riducendo l’impatto sui consumatori. Che invece pagheranno carissima l’offensiva di Trump. Secondo il Budget Lab di Yale le sole tariffe annunciate il 2 aprile ridurranno il potere d’acquisto del nucleo famigliare medio di 2.100 dollari l’anno. Tenendo conto anche di quelli già in vigore su acciaio, alluminio e auto e delle ritorsioni degli altri Paesi, la perdita arriva a 3.800 dollari. E a pagare il conto più salato saranno i nuclei meno abbienti: l’onere subìto da chi rientra nel secondo decile di reddito (4% di perdita) risulta 2,5 volte più alto rispetto a quello che graverà sul decimo decile, i più benestanti. La working class che ha votato Trump sperando in più posti di lavoro e prezzi più bassi avrà un brusco risveglio. Bessent, stando a indiscrezioni, è tentato dalle dimissioni.
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