8 Aprile 2025
Dazi: borse a picco, il mondo studia le contromosse


I mercati reagiscono male, anzi malissimo, all’annunciata guerra dei dazi di Donald Trump: lunedì mattina, dopo le chiusure del fine settimana e la conferma che il presidente Usa non intende fare marcia indietro, le borse asiatiche sono sprofondate, seguita da tutte le principali piazze internazionali. L’indice Hang Seng di Hong Kong è crollato di oltre il 13%, il peggior calo giornaliero in un secolo, e i listini europei non sono andati meglio. Le azioni si inabissavano man mano che Goldman Sachs aumentava le probabilità di una recessione negli Stati Uniti dal 35% al ​​45% a seguito di “un forte inasprimento delle condizioni finanziarie”. Interrogato dai giornalisti sugli indici in profondo rosso, Trump ha risposto che “a volte bisogna prendere delle medicine per risolvere qualcosa”. Il presidente degli Stati Uniti ha sconvolto l’ordine commerciale globale la scorsa settimana in quello che ha definito il “giorno della liberazione” imponendo dazi tra il 10 e il 50% a livello globale e sopra il 40% ad alcuni dei maggiori partner commerciali degli Stati Uniti. L’ondata di vendite ha bruciato in tre giorni 9.500 miliardi di dollari sulle piazze globali, mentre tra giovedì e venerdì da sola Wall Street ha perso 5mila miliardi segnando la settimana peggiore dall’inizio della pandemia di coronavirus nel 2020.

Usa divisi in pro e contro?

I timori per un tracollo dell’economia, anche americana, hanno mobilitato migliaia di persone, che nel weekend hanno sfilato in oltre 1200 città degli Stati Uniti. Le manifestazioni, intitolate “Hands off”, giù le mani dal governo, dall’economia, dai diritti sono state molto partecipate e vi hanno aderito oltre 150 sigle, tra sindacati, gruppi per la difesa dei diritti civili, della comunità Lgbt, per l’integrità delle elezioni, delle associazioni dei veterani. Sebbene non fossero specificamente rivolte alla guerra tariffaria, molti dimostranti hanno denunciato l’impatto dei dazi su consumatori e i pensionati. E in piazza – conferma l’Associated Press – c’erano molti anziani e persone di mezza età, arrabbiati per il crollo in borsa dei loro fondi pensione, ma anche preoccupati per il fatto che la crociata che il tycoon ha affidato a Musk per tagliare la spesa e il personale federale vada ad intaccare l’assistenza sanitaria di programmi come Medicare. Non tutti, però, temono danni per l’economia e negli stati del Midwest, come racconta un reportage di Bbc, agricoltori, piccoli produttori e operai delle catene di montaggio, colpiti dalla delocalizzazione affermano che i dazi hanno finalmente rimesso “l’America al primo posto” e che riporteranno posti di lavoro e produzioni negli Usa.

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C’è chi tratta e chi no?

Se negli Usa ci si divide tra chi è a favore e chi contro la guerra tariffaria di Trump, fuori la divisione riguarda le strategie da adottare. Così, mentre i ministri del Commercio europei si riuniscono in Lussemburgo per cercare una risposta comune ai dazi del 20% che Trump ha imposto alla Ue, alcuni paesi hanno già manifestato la volontà di collaborare con Washington per evitare i dazi. La presidente della commissione UE, Ursula von der Leyen, ha dato un segnale d’apertura proponendo un accordo per rimuovere i dazi su tutti i beni industriali. Il segretario al Tesoro degli Stati Uniti, Scott Bessent, ha affermato che più di 50 nazioni hanno avviato ‘negoziati’ dopo l’annuncio di mercoledì scorso. Tra quelli che hanno dichiarato la propria disponibilità ci sono Vietnam, Filippine, Taiwan e Giappone. Ma potrebbero non avere altra scelta se non rafforzare i legami con la Cina, se i dazi diventassero la nuova normalità. Nel corso dell’ultimo mese Pechino ha tenuto colloqui con Giappone e Corea del Sud, colpiti la scorsa settimana rispettivamente da dazi del 24% e del 25%. La Cina ha reagito ai dazi imponendo sua volta tariffe del 34% sui prodotti Made in Usa, controlli sulle esportazioni di minerali rari e restrizioni commerciali su specifiche aziende statunitensi. Pechino ha criticato i dazi statunitensi definendoli “bullismo unilaterale”. Gli Usa “stanno sacrificando gli interessi legittimi di tutti per servire i propri interessi egoistici e dando priorità all’America rispetto alle regole internazionali”, ha detto il portavoce del ministero degli Esteri Lin Jian, aggiungendo che “minacce e pressioni non sono il modo migliore per negoziare con la Cina”.

Netanyahu vuole un accordo sui dazi?

I dazi americani non risparmiano neanche l’alleato più stretto: Israele. Tel Aviv è stata colpita da tariffe al 17% su tutte le sue esportazioni negli Usa, una mossa che rischia di mettere in difficoltà un’economia già indebolita da diciotto mesi di conflitto e dalla continua mobilitazione di parte della forza lavoro per lo sforzo bellico. Il premier israeliano Benjamin Netanyahu sarà il primo leader ad essere ricevuto, stasera, alla Casa Bianca dall’avvio della guerra commerciale globale. È la sua seconda visita dall’insediamento di Trump, a gennaio, e arriva dopo l’invito improvvisato del presidente giovedì scorso, quando il premier – nel tentativo di evitare i dazi – aveva eliminato tutte le imposte sui beni statunitensi in entrata nello stato ebraico. Trump, però, li aveva imposti comunque, citando il deficit commerciale dell’America nei confronti dell’alleato mediorientale. Oltre all’offensiva su Gaza e l’estensione del conflitto latente contro l’Iran, nel faccia a faccia con Trump, Netanyahu punta a strappare un accordo favorevole sui dazi. Oltre un quarto delle merci esportate da Israele, per un valore di oltre 20 miliardi di dollari annui, prendono la strada degli Usa. Tra queste semiconduttori, macchinari industriali, componenti elettronici, farmaci ed altri prodotti dell’industria israeliana. Netanyahu – che sta espandendo la sua offensiva a Gaza ed è accusato di aver dato via libera a nuovi insediamenti illegali in Cisgiordania –  spera di essere il primo leader mondiale a convincere Trump a fare marcia indietro.

Il commento

Di Lucia Tajoli, ISPI Senior Associate Research Fellow

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“I mercati stanno reagendo molto male ai dazi di Trump per molte ragioni, la prima delle quali probabilmente è l’elevata incertezza che queste misure comportano in termini di prospettive per il sistema degli scambi globali e il futuro andamento dei prezzi internazionali. Inoltre, i dazi possono spezzare o ostacolare le attuali catene globali del valore, ovvero le filiere internazionali di produzione necessarie oggi per la produzione di tantissimi beni. Se un bene, che si tratti di un’automobile, un giocattolo oppure un computer, viene prodotto con input che vengono da tanti paesi e attraversando molti confini, l’effetto dei dazi su quella produzione risulta additivo e quindi può essere molto forte. Quindi le imprese – alla luce delle misure annunciate – stanno decidendo se e come riorganizzare le loro catene internazionali di produzione. Questa riorganizzazione e il trasferimento di parti di produzione da un paese a un altro può ridurre l’impatto dei dazi, ma è una riorganizzazione costosa, che può avere tempi lunghi, e nel breve periodo aumenta ulteriormente l’incertezza”.



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