14 Aprile 2025
Come fare dell’Italia una fabbrica delle imprese (giovani): meno burocrazia e più credito


di
Ferruccio De Bortoli

La stagione dei sussidi non ha aiutato a stimolare il talento dei giovani in grado di fondare aziende. Ma l’ultimo rapporto di Unioncamere fa ben sperare: gli under 39 autonomi e i datori di lavoro da noi sono più della media europea

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Ogni stagione economica ha la sua canzone simbolo. Nel libro «Un miracolo non fa il santo» (Ibl), Nicola Rossi si interroga sulla «distruzione creatrice» nella società italiana tra il 1861 e il 2021. Sì perché per innovare e costruire opportunità e benessere bisogna anche liberarsi di ciò che è vecchio, obsoleto. Guai a voler salvare tutto. Rossi sceglie tre celebri brani per descrivere due Italie. Mille lire al mese di Innocenzi e Sopranzi è del 1938 (Un modesto impiego, io non ho pretese). L’autore la accosta a Una vita da mediano di Ligabue del 1999 (da uno che si brucia presto) per descrivere due periodi molto diversi, ma gravidi di preoccupazioni assimilabili. L’altra Italia è quella di Nel blu dipinto di blu di Migliacci e Modugno, lanciata nel 1958, nel pieno del boom economico o meglio del miracolo italiano (e qui si comprende il titolo del saggio). Abbiamo creato ricchezza quando siamo stati in grado di sprigionare nuova vitalità. Spirito d’iniziativa, voglia di riscatto. Esattamente come accadde nel Dopoguerra. Se non c’è «distruzione creatrice» non c’è crescita. Si tenta di conservare e ci si chiude in noi stessi, prigionieri della paura del futuro. E allora la domanda, scomoda, che dovremmo porci è se stiamo facendo di tutto per stimolare, soprattutto nei giovani, una nuova imprenditorialità. 

La fiducia

O se, al contrario, la stiamo scoraggiando. La stagione dei troppi sussidi e incentivi non ha certamente contribuito a forgiarla. Il peso crescente delle corporazioni (non solo di balneari e tassisti, magari fossero solo quelli) ha finito per deprimerla. Insieme a una storica tendenza delle classi dirigenti italiane a farsi proteggere dalla politica. Salvare le aziende che non hanno futuro non è un’opera di giustizia sociale ma uno spreco di opportunità future. Commenta Rossi: «Mai, con la sola parziale eccezione del ventennio successivo alla Seconda Guerra Mondiale, gli italiani hanno guardato alle libertà economiche come un elemento determinante della loro identità». Aggiungiamo che negli ultimi anni queste libertà sono state cordialmente avversate. Complice l’illusione pericolosa che si possa vivere a rischio zero. Nascondendo, di conseguenza, la testa sotto la sabbia tiepida di una spiaggia immaginaria. 
Eppure, proprio in questi giorni in cui temiamo per l’effetto disastroso dei dazi americani, ci troviamo a constatare che le nostre imprese esportatrici sono state in grado di affrontare ogni tempesta. Ce la faranno anche in questa. Hanno accettato e vinto la sfida della concorrenza mondiale. Perché il resto del Paese non dovrebbe fare altrettanto? Qualche barlume di speranza, e molti spunti di riflessione, ci vengono dall’ultimo Rapporto sull’Italia generativa, realizzato da Uniocamere, presentato ufficialmente oggi a Roma. «Avviare un’impresa — si legge nell’introduzione dello studio che cita Hanna Arendt — è un atto di nascita, un’apertura verso il nuovo». E l’eventuale successo, non solo economico, non riguarda solo l’individuo, il nuovo imprenditore, «ma l’intero contesto in cui si inserisce».




















































La società generativa

Anche il rapporto richiama la «distruzione creatrice» di Joseph Alois Schumpeter, senza la quale le forme economiche esistenti, irrigidendosi, spezzano la tensione verso l’avvenire. Questo passaggio è particolarmente significativo e si ricollega all’analisi di Rossi.
Quando una società è generativa, allora? «Può dirsi generativa — è scritto nel Rapporto — una società alimentata dalla dinamica del desiderare, capace di ricreare continuamente, adattandole al tempo e allo spazio, le condizioni più favorevoli alla piena fioritura personale e culturale». Lo studio è assai ampio. Utilizza 150 indicatori e sfrutta la capacità dell’Istituto Guglielmo Tagliacarne di indagare in profondità la demografia e la tipologia delle imprese. 

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I casi virtuosi

Vi sono anche molti casi di aziende «generative» oltre che competitive. Una bella scoperta. L’Italia ha un tasso di imprenditorialità, o imprenditività come dice il Rapporto, mediamente più basso dei suoi principali partner economici. Forse anche perché si lascia la famiglia più tardi e molti giovani, soprattutto laureati e diplomati, preferiscono andare all’estero. Sul totale dei laureati però, abbiamo una quota di lavoratori autonomi superiore a quella di altri Paesi. Il dato è ambiguo perché non è direttamente connesso a una maggiore imprenditorialità. Spesso, al contrario, è indice di precarietà.
Se invece concentriamo l’attenzione sui giovani tra i 15 e i 39 anni che sono autonomi e datori di lavoro, non liberi professionisti, il dato italiano è, per gli uomini, superiore alla media europea. Per le donne siamo al secondo posto. Il dramma è che di giovani ne abbiamo pochi.
L’altro segnale promettente deriva dalla scarsa propensione ad avere un posto fisso e dal numero crescente di ragazzi e soprattutto ragazze che vogliono tentare una via imprenditoriale propria. E qui gli ostacoli sono maggiori che all’estero. A volte insuperabili. Non c’è solo la mancanza di risorse e di strumenti finanziari, la difficoltà a dare credito alle start up, ma è diffusa la sensazione tra i giovani di non essere presi sul serio dagli investitori (lo dice il 14,1% degli intervistati, il dato più alto in Europa). E poi c’è il cauchemar legale. L’incertezza sulle conseguenze civili e penali di un eventuale errore o peggio di un fallimento. Parola estromessa da diritto sulle crisi di impresa ma che ristagna troppo nei retropensieri degli imprenditori.

Potenzialità nascoste

«La realtà che emerge dalla ricerca — è il commento del sociologo Mauro Magatti, coordinatore scientifico dell’iniziativa — è che vi sono nel nostro Paese tanti potenziali bacini in cui può svilupparsi una nuova imprenditorialità. Dai giovani alle donne agli immigrati che sempre più spesso tendono a mettersi in proprio e replicano lo spirito che avevano i nostri padri e nonni della seconda metà del Novecento. Il tessuto industriale delle piccole e medie imprese dovrebbe essere il terreno ideale. Se non lo è, lo spreco è intollerabile. Si ha poca cura dell’ecosistema. Burocrazia, credito negato, modesta formazione, welfare insufficiente, sono altrettante barriere all’imprenditorialità. Smorzano ogni entusiasmo. In un Paese che cresce poco, tutto questo è intollerabile. Importante è avere imprese che oltre ad essere sostenibili e a promuovere il benessere dei propri dipendenti, si impegnino a creare nuova imprenditorialità. A dire ai ragazzi: provateci, rischiate. Io le chiamo aziende megantropiche. Una virtù rigenerativa».
Difficile trovare, per tornare a quello che dicevano all’inizio, una canzone del tempo. Mille euro non sono come le mille lire del 1938. Non fanno sognare nessuno. E giustamente nessuno si accontenta. Non diamo uno sguardo ai testi delle canzoni più ascoltate dei trapper, come Lamborghini di Sfera Ebbasta e Guè Pequeno, perché speriamo che non siano candidate a diventare l’emblema di un’epoca. 



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