
Dato assolutamente per certo che i dazi imposti da Trump siano una misura ingiusta a livello di principio, pressapochista nei modelli di calcolo adottati e quasi certamente contro producente per la stessa economia statunitense, non possiamo non rilevare come tale provvedimento vada a colpire un modello economico globale a sua volta sbagliato, fonte di quei tanti e profondi squilibri che poi stanno, a ben guardare, all’origine di guerre, flussi migratori, crisi climatiche e, in generale, dei gran di problemi sociali, politici ed ecologici del nostro tempo.
Il presidente Trump ha più volte accusato l’Europa di aver fondato il proprio benessere e la propria invidiabile qualità di vita (che effettivamente non trova eguali in altre parti del mondo) su atteggiamenti parassitari e predatori nei confronti degli Stati Uniti e del resto del mondo. In realtà dobbiamo riconoscere che è tutto l’Occidente, nord America compreso, che ha potuto realizzare il proprio benessere e il proprio sviluppo in buona misura prima grazie al colonialismo prima e poi a quel neocolonialismo economico che caratterizza e condiziona ancor oggi i mercati globali. Un modello messo in discussione negli ultimi decenni non tanto da interrogativi di natura etica o ideale, ma piuttosto dal sorgere di nuove superpotenze economiche come la Cina o l’India, che sacrificando la propria cultura e replicando i nostri stessi modelli produttivi e consumistici, grazie ad un contesto di arretratezza di affermazione e tutela dei diri i individuali e sociali, hanno potuto diventare concorrenziali rispetto all’Occidente, incrinandone l’egemonia assoluta.
L’idea di fondo di Trump è che le merci prodotte in Paesi diversi da gli Stati Uniti debbano essere tassate in entrata per renderle così meno concorrenziali rispetto a quelle prodotte “in casa” e che tale tassazione debba aumentare nella misura in cui il Paese di origine delle merci in arrivo non acquisti a sua volta beni prodotti negli Stati Uniti, in una logica di scambio e di mantenimento protezionista degli equilibri tra “entrate” e “uscite”. L’imposizione dei dazi sulle merci estere, accompagnati dalla promessa di sgravi fiscali e incentivi per chi produca beni negli Stati Uniti, rivela come in realtà il problema di fondo, di solito non adeguatamente considerato, ma sfalsato anche nella visione trumpiana che pure grossolanamente cerca di porvi rimedio, sia la delocalizzazione della produzione dei beni di consumo nei paesi in via di sviluppo. Un processo sempre più spinto a partire dagli anni ’90 del secolo scorso, che ha impoverito vaste fasce di popolazione negli Stati Uniti, ma anche in Europa e nel nostro Veneto. La delocalizzazione della produzione automobilistica ha portato recessione e povertà a Detroit come a Torino. Lo spostamento della produzione tessile nel sud del mondo ha causato depressione in Pennsylvania come a Valdagno. Il rischio è quello di dividere il mondo tra chi produce e chi organizza la produzione e consuma, rendendo di fatto i paesi poveri la classe operaia di quelli ricchi e dando vita a nuove forme di schiavitù. Il caso più emblematico è forse quello di Lesotho, un piccolo stato dell’Africa Meridionale con appena due milioni di abitanti che si è visto applicare dagli Stati Uni ti un dazio del 50 % sul valore delle merci che esporta, il più alto in assoluto. La colpa di Lesotho, che Trump ha sprezzantemente definito “il paese di cui nessuno ha mai sentito parlare”, è quella di non comprare praticamente nulla dal Nord America, ma di ospitare (come il Vietnam, cui è stato applicato un dazio del 46%) sul proprio territorio le manifatture di alcuni marchi famosi di jeans e abbigliamento sportivo. Il problema è che, se le misure del governo Trump dovessero portare tali multinazionali a spostare di nuovo la produzione, a pagarne il costo più alto sarà ancora la povera gente, le donne di Lesotho che si troveranno disoccupate e senza alcuna alternativa.
Alessio Graziani, donalessio@lavocedeiberici.it
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