
Nei giorni scorsi è stato pubblicato il Decreto del Capo dipartimento per l’informazione e per l’editoria con il quale è stato approvato l’elenco delle imprese editoriali che sono state ammesse al contributo sulle copie vendute nel 2022. Si tratta di una misura che è rivolta a sostenere le imprese quasi le imprese editoriali in ragione di un contributo di dieci centesimi a copia venduta. Lo stanziamento previsto è stato di 60 milioni di euro mentre il fabbisogno complessivo si è rivelato essere pari a 67 milioni di euro per cui il Dipartimento ha previsto una percentuale di ripartizione dell’89 per cento. Questa misura sostiene indistintamente quasi tutte le imprese editoriali, grandi e piccole che siano e a prescindere da requisiti soggettivi. Hanno richiesto e ottenuto il contributo in esame 80 imprese, quindi, il contributo medio è stato di 800.000 euro. Ma la distribuzione all’interno della graduatoria è molto disomogenea, in quanto, e solo a titolo esemplificativo, Gedi e Rcs, includendo le società che fanno capo direttamente ad Umberto Cairo, hanno assorbito oltre 23.350 euro, quindi, più di un terzo delle risorse destinate all’intero comparto. A queste misure si aggiungono anche il contributo sulla carta e sui servizi tecnologici che vengono anche questi destinati indistintamente a, quasi, tutte le imprese e che premiano a loro volta le imprese editoriali di maggiori dimensioni. Nessuno mette in discussione la funzione di questi contributi, essenziali per garantire le condizioni di sopravvivenza di un settore in uno stato di grandissima crisi e fondamentale per il pluralismo. Ma occorre una riflessione sulla continua polemica intorno all’altra forma di sostegno pubblico destinato alle imprese cooperative e no profit. Perché è sempre su questa diversa forma di sostegno che si annida il più becero dibattito, fomentato dal populismo che anima il dibattito politico, ben alimentata dal dibattito sui social, che arricchisce, non a caso, i padroni dei social stessi che di populismo vivono. Facciamo parlare i numeri. Per il 2023, al netto di alcune imprese per le quali il procedimento istruttorio del Dipartimento è ancora aperto, sono stati erogati circa 80 mni di euro. Hanno avuto accesso ai contributi 132 imprese con un contributo medio erogato di circa 600.000 euro. Anche in questo caso la distribuzione tra i destinatari è poco eterogenea in termini di somme ricevute, ma la differenza sostanziale è che queste imprese per accedere ai benefici devono sottostare a regole molto stringenti. Tra cui il divieto di distribuzione degli utili e la necessità di avere una struttura societaria che sostanzialmente impedisce la realizzazione di plusvalenze da destinare ai privati nell’ipotesi di cessione della testata e/o dell’azienda. Non sono differenze da poco. Occorre tenere anche conto che queste sono le uniche imprese che non possono accedere agli altri tipi di contributi. Ora, non vi è dubbio che senza sostegno pubblico chiuderebbero tutti i giornali di minori dimensioni e senza editori con grandi capacità finanziarie alle spalle. Che potrebbero condizionare in maniera ancora maggiore l’autonomia editoriale dei giornalisti. Questo scenario, auspicato da una parte dell’opinione pubblica, è sicuramente auspicato dalle grandi piattaforme che si troverebbero, da sole, a gestire tutta l’informazione. Ma in realtà sarebbe necessario che il legislatore operasse una scelta politica di scenario pensando ai grandi giornali, in Italia quasi sempre facenti riferimento a importanti gruppi imprenditoriali, fortemente interconnessi alle decisioni pubbliche, e alle realtà di dimensioni minori. Con misure che garantiscano il massimo livello di autonomia dei giornalisti, nel primo caso, e che creino le condizioni di sopravvivenza nel secondo caso. Il sottosegretario all’editoria, Alberto Barachini, sta cercando di introdurre elementi di riforma. ma è necessario che l’impulso ad una riforma provenga dal Parlamento che rivendichi il suo imprescindibile ruolo di tutela del pluralismo e, conseguentemente, di sé stesso.
Paola Verrusio
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