
Le donne italiane sono tra le meno occupate in Europa, specie quando hanno figli. Va un po’ meglio in tema di imprenditoria. La quota sale al 30% sul totale dei 4 milioni e 800mila di imprenditori operanti in Italia (dato ISTAT sul 2021). La buona notizia è anche che la percentuale è in crescita, pur se lievemente, rispetto al 2015, quando rappresentavano il 29%. Anche qui, però, la parità non è un fatto scontato. «Quello che bisogna fare è cambiare la narrazione quando si parla di imprenditoria femminile. Sfatare il mito che sia impossibile» dice Valentina Picca Bianchi, Presidente del Comitato Impresa Donna del Ministero del Made in Italy, di Donne Imprenditrici FIPE e Founder del brand di catering Whitericevimenti.
Cominciamo con il parlare di fondi, perché ce ne sono, anche se a volte non se ne è a conoscenza…
«Assolutamente sì, e ritengo fondamentale che se ne parli, soprattutto per chi parte da zero e non dispone di risorse proprie. Presso il Ministero delle Imprese e del Made in Italy è stato istituito il Fondo Impresa Femminile, uno strumento concreto – gestito da Invitalia – che eroga finanziamenti agevolati e contributi a fondo perduto sia alle aziende di nuova costituzione sia a quelle già attive. Spesso il primo ostacolo è proprio la mancanza di accesso all’informazione: far sapere che esistono opportunità reali è il primo passo per colmare il divario».
Di quale budget si dispone?
«Il budget complessivo è significativo e articolato su più fronti: 100 milioni di euro per rifinanziare il NITO (Nuove Imprese a Tasso Zero), ricalibrandolo esclusivamente sulle imprese femminili; 10 milioni per rafforzare Smart&Start, un altro strumento di agevolazione; 265 milioni per il rifinanziamento del Fondo Impresa Femminile, istituito nel 2021, cui si aggiungono ulteriori 33,8 milioni da risorse nazionali; 25 milioni destinati ad attività di accompagnamento, monitoraggio e comunicazione, con una parte gestita dal Dipartimento per le Pari Opportunità; infine, 6,2 milioni da fondi nazionali aggiuntivi. Sommando queste cifre, si arriva a oltre 440 milioni di euro, un impegno concreto che però ha bisogno di una governance efficiente e di una comunicazione chiara per arrivare davvero alle donne che ne hanno bisogno».
Il tutto è sostenuto dal PNRR?
«Sì. Ci muoviamo all’interno della Missione 5 – Componente 1 del PNRR, dedicata alle Politiche per il Lavoro. La dotazione prevista è di 400 milioni di euro, con un obiettivo preciso: aumentare il tasso di partecipazione femminile nel mondo del lavoro, sostenendo in particolare l’avvio e il consolidamento delle aziende guidate da donne. Il target è ambizioso, ma realizzabile: finanziare almeno 2.400 imprese femminili entro il 2026. Un investimento che ha un valore economico, ma anche culturale».
«È un dato allarmante, che parla da sé. L’imprenditorialità femminile è una delle leve più potenti per riequilibrare questi numeri. Le donne che fanno impresa spesso adottano modelli inclusivi, favoriscono l’assunzione di altre donne, promuovono l’equilibrio tra lavoro e vita privata e supportano il rientro professionale dopo la maternità. Questo non è solo un modello economico virtuoso: è un cambio di paradigma culturale. Ignorare il potenziale del talento femminile significa accettare uno spreco insostenibile. Basti pensare che il divario occupazionale di genere costa ogni anno 370 miliardi di euro all’Unione Europea. Non è più tollerabile».
Cosa deve cambiare per far sì che più donne si avvicinino all’imprenditoria?
«L’idea che fare impresa sia impossibile per una donna. È falsa, superata, eppure ancora profondamente radicata. È questa narrazione che allontana le nuove generazioni. E invece io dico sempre: se vuoi, puoi. Le donne possono tutto. E quando trovano le condizioni giuste per esprimersi, creano valore non solo per sé stesse, ma per l’intera collettività».
Qual è uno degli stereotipi più difficili da smontare?
«Quello secondo cui le donne non sarebbero portate per i numeri. È un pregiudizio culturale antico, che si alimenta già in ambito familiare, quando si indirizzano le figlie verso studi umanistici invece che scientifici. Lo vediamo chiaramente nei dati delle discipline STEM, dove le donne rappresentano meno del 40% dei laureati, pur conseguendo voti più alti dei colleghi maschi. È un divario che parte da lontano e che possiamo ridurre solo con un investimento culturale deciso».
L’ostacolo maggiore è dunque culturale?
«Assolutamente sì. La vera sfida è educativa e identitaria. Vorrei che sempre più ragazze potessero dire con orgoglio: voglio diventare imprenditrice. È questa la cultura che dobbiamo promuovere: una cultura del fare, della competenza, della costruzione di realtà solide e sostenibili. Oggi molte barriere sono state abbattute, ma la strada è ancora lunga. Dobbiamo avere il coraggio di accelerare».
In occasione dell’8 marzo è stato firmato il decreto interministeriale per il rinnovo del Comitato Impresa Donna, di cui lei è stata nominata Presidente. Di cosa si tratta?
«Il Comitato Impresa Donna è nato con la Legge di Bilancio 2021 presso l’allora Ministero dello Sviluppo Economico, oggi Ministero delle Imprese e del Made in Italy. È uno strumento di indirizzo, analisi e impulso, formato da rappresentanze femminili delle principali associazioni di categoria. Lavoriamo in sinergia con stakeholder ed esperti del settore per sostenere le imprenditrici italiane. Il nostro lavoro è strettamente collegato al Fondo Impresa Femminile».
Qualcosa si muove, insomma
«Sì, va riconosciuto. Il rinnovo del Comitato testimonia la volontà delle istituzioni di consolidare il sostegno all’imprenditoria femminile, non solo in termini simbolici ma con azioni concrete. Il valore strategico del nostro lavoro è chiaro, e oggi più che mai serve un approccio sistemico per generare impatto e cambiamento».
Tocca il tema della competenza. Non è ciò che dovrebbe sempre essere anteposto a tutto?
«Senza dubbio. Deve essere alla base di ogni percorso imprenditoriale. Serve passione, serve determinazione, ma serve soprattutto preparazione. Prima ancora di iniziare, bisogna studiare il Mercato, conoscere il contesto, mettere a fuoco i propri obiettivi. Solo così si evitano progetti aleatori e si costruiscono imprese che durano».
Senza dimenticare le crisi geopolitiche in atto…
«Chi fa impresa non può prescindere da una visione ampia. La lettura del presente – anche geopolitica – è essenziale. Un’imprenditrice deve saper analizzare, connettere i punti, interpretare i segnali. Questo processo comincia dalle piccole cose, anche dalla lettura quotidiana dei giornali».
Qual è il settore su cui puntare, quello che lei vede come dominante?
«Più che guardare al settore specifico, credo sia cruciale il modo in cui ci si sta nel Mercato. E oggi non si può prescindere dal marketing e dalla comunicazione, che sono diventati strumenti decisivi. Il digitale ha reso tutto più accessibile, ma non meno impegnativo. Anche lì, non basta esserci: bisogna saperci stare con competenza».
Lei ha fondato un’impresa che si occupa di catering. Cosa riscontra quando seleziona nuove risorse?
«Un fraintendimento di fondo: il lavoro non è più percepito come mezzo di realizzazione personale. Lo vedo nei giovani, ma anche negli adulti. C’è una narrazione sbagliata che va corretta, probabilmente nata dentro le famiglie».
Si dà troppa importanza al tempo libero?
«Se non si dispone di risorse economiche solide, il tempo libero non può che essere guadagnato. Non è una questione di rigidità, ma di realismo».
Dov’è l’errore?
«Nel far credere che il lavoro sia solo fatica. Invece è proprio attraverso il fare che si impara la vita. Non importa se si è imprenditori o dipendenti: ciò che conta è fare bene il proprio lavoro, con consapevolezza e dignità».
Lei è stata dipendente?
«Sì, e proprio grazie a quell’esperienza ho costruito le basi della mia impresa. Mi sono preparata, ho studiato. Sono diplomata al liceo classico e laureata in Sociologia e Scienze della Comunicazione. Non esiste una scuola per diventare imprenditori, ma esiste la possibilità di acquisire le competenze, se si ha il coraggio di provarci».
Nel campo della ristorazione qual è l’incidenza di presenze femminili?
«È altissima: oltre 600.000 donne lavorano nel comparto e più di 96.000 imprese sono guidate da donne. Solo nel 2023, il settore ha generato un fatturato superiore a 2,2 miliardi di euro. La crescita è costante, ma è essenziale che sia anche responsabile, sostenibile, rispettosa del patrimonio ambientale e culturale del nostro Paese».
Quali sono le principali criticità che restano da combattere?
«Due, principalmente: la carenza di educazione finanziaria e la difficoltà nella conciliazione tra vita e lavoro. Sul primo fronte, servono strumenti, formazione e reti. Sul secondo, occorre abbattere le barriere che ancora oggi penalizzano le donne nella loro piena realizzazione professionale. La collaborazione tra pubblico e privato è essenziale. Solo così potremo costruire un sistema in cui ogni donna possa esprimere il proprio talento senza dover rinunciare a nulla».
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📸 Credits: Canva
Articolo tratto dal numero del 15 aprile de il Bollettino. Abbonati!
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