16 Aprile 2025
valorizzare le PMI, arma contro le Big Tech


Negli ultimi tre decenni, la scena globale ha assistito a un’accelerazione senza precedenti dei processi di digitalizzazione, con effetti sistemici sulla ridefinizione degli equilibri geo-strategici, sull’economia e sull’intera società.

Ciò che un tempo, almeno inizialmente, era stato concepito come un percorso pervasivo e capillare verso la connettività globale e la democratizzazione dell’accesso ai servizi e all’informazione, si è rapidamente trasformato in un ecosistema centralizzato e polarizzante, dominato da poche grandi imprese – prevalentemente, ad oggi, di provenienza statunitense e cinese – capaci di esercitare un’influenza senza precedenti.

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Questo fenomeno, com’è facilmente comprensibile, non è semplicemente il risultato di una naturale dinamica di competizione di mercato, ma esprime uno scenario disegnato, implementato e costantemente potenziato da strategie globali aggressive, di economie di scala premiate da un certo tipo di predisposizione del mercato e dalla diffusa esistenza di zone grigie normative.

Sovranità digitale europea: un contesto di crescente dipendenza

Secondo quanto rilevato dalle analisi condotte dalla European Digital SME Alliance per il Manifesto 2030 – European Digital New Deal, circa l’80% dei prodotti, dei servizi e delle infrastrutture digitali fondamentali – dal cloud computing alle interfacce di pagamento, passando per l’e-commerce – dipende da player extraeuropei. Pur riconoscendo i benefici potenzialmente derivanti dall’integrazione in un mercato internazionale aperto, non si può non rilevare la criticità della progressiva centralizzazione nelle mani di poche multinazionali – prevalentemente extra-europee – di risorse strategiche, come i database governativi, i sistemi gestionali di infrastrutture strategiche o le applicazioni di IA in ambito sanitario.

Questo tipo di sbilanciamento rischia di generare una potenziale inadeguatezza della capacità di regolare il tessuto industriale, di proteggere i dati dei cittadini e di promuovere – anziché semplicemente cercare di preservare – una sana dimensione di concorrenza interna.

Le tensioni tra innovazione e regolamentazione nella costruzione della sovranità digitale europea

È in questo contesto, ad esempio, che si inserisce il dibattito innescato da personalità come Sam Altman, CEO di OpenAI, che reclamano l’esigenza di una forma di “deregulation” (soprattutto rispetto alle tematiche di copyright, ma con prospettive e implicazioni ben più ampie) per massimizzare un presunto diritto all’innovazione, in uno scenario che deve poter reagire efficacemente alla minaccia rappresentata dalla cyber-potenza cinese.

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Da questo lato dell’Atlantico, al contrario, i decisori politici europei sembrano cercare di bilanciare le esigenze di crescita economica con un tentativo di salvaguardia della privacy e una concezione ben più rigorosa e stringente dei diritti fondamentali. Questa tensione non dissimulabile tra visioni del mondo e concezioni dell’interdipendenza tra economia, politica e società, evidenzia come la capacità di innovare più rapidamente, a prescindere dal prezzo, si possa tradurre rapidamente in un vantaggio non solo economico, ma direttamente geopolitico. Se riconosciamo che la tecnologia è diventata la vera infrastruttura cognitiva del nostro tempo, possiamo facilmente comprendere come la capacità di orientarne l’implementazione e la diffusione permetta di esercitare influenza sulle dinamiche di evoluzione economica, culturale e sociale.

Il panorama egemonico: Big Tech e consolidamento del potere

Negli ultimi due decenni, le cosiddette Big Tech, che hanno progressivamente acquisito un peso sempre maggiore, non si sono solo limitate ad ampliare la propria presenza sul mercato digitale, ma ne hanno, sostanzialmente, ridefinito l’architettura stessa. Attraverso modelli di business eterogenei, basati principalmente sull’analisi massiva dei dati, sulla pubblicità personalizzata e sulle piattaforme integrate a livello globale, hanno progressivamente centralizzato – tecnologicamente e culturalmente – servizi e applicazioni, fidelizzando in maniera capillare utenti finali e aziende, con offerte difficilmente eguagliabili.

Tale fenomeno di egemonizzazione progressiva ha messo sempre più in evidenza la natura a tratti contraddittoria dell’economia digitale. Se da un lato offre opportunità straordinarie di crescita e innovazione, consentendo l’accesso a strumenti di portata planetaria, dall’altro, rischia di scavare un solco profondo tra chi dispone di capitali, capacità computazionale e infrastrutture, e chi fatica a tenere il passo, in termini di velocità o di capacità di accelerazione permanente.

All’interno dell’Unione Europea, l’assenza di un vero “gigante digitale” e la tradizionale frammentazione del mercato interno hanno inevitabilmente accentuato questo divario: molte realtà, nel momento in cui si trovano a identificare le condizioni per poter scalare, si vedono costrette a ricorrere a finanziamenti offerti da player extra-europee, innescando ulteriori meccanismi di dipendenza.

Nel tempo, con buona pace di Adam Smith, la fiducia in un’evoluzione spontanea del mercato si è rivelata un’arma a doppio taglio, poiché la mancanza di regole efficaci e tempestive ha consentito a colossi come Google, Meta, Apple, Amazon e Microsoft, cui dovremo abituarci ad affiancare attori cinesi di primo piano, di comprendere, anticipare e disegnare il futuro con una libertà di movimento pressoché illimitata.

L’Europa, pur intervenendo in maniera rilevante con iniziative di regolamentazione, come il:

ha finora agito a posteriori, lasciando alle Big Tech la facoltà sostanzialmente incondizionata di consolidare la propria posizione nel mercato e nella società, senza incontrare reali contrappesi strutturali.

Ripensare la sovranità digitale in chiave di autonomia strategica

La questione centrale è sempre la necessità di equilibrare i rapporti di forza e garantire opportuni margini di manovra alle strategie imprenditoriali ed economiche europee, senza dover rinunciare ai vantaggi offerti da un mercato globale. Il concetto di sovranità digitale, inizialmente recepito con una certa cautela per il timore – in alcuni casi strategicamente alimentato – di derive protezionistiche, emerge ora come uno strumento essenziale per poter preservare l’indipendenza decisionale in settori nevralgici quali la tutela della proprietà intellettuale, l’e-Government, la difesa, il manifatturiero avanzato

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Evidentemente, non si tratta soltanto di erigere un muro a supporto di una forma non meglio precisata di protezionismo europeo: la finalità di una strategia tecnologica autonoma è innanzitutto quella di offrire alternative competitive ed efficaci, rispetto alle infrastrutture e ai servizi internazionali tradizionalmente in uso, scongiurando l’eventualità di meccanismi di dipendenza integrale da piattaforme che sfuggono alla giurisdizione, alla visione socio-politica e agli obiettivi industriali dell’Unione. È in tale contesto che, nel corso del 2024, prende forma l’idea dell’Eurostack: un’iniziativa mirata a costruire una filiera tecnologica europea integrale, che spazi dalla connettività alle competenze specialistiche, dal software open source ai fondi di venture capital dedicati alla ricerca d’eccellenza.

Concretamente parlando, la visione alla base dell’Eurostack propone di mettere in rete centri di eccellenza, promuovere la creazione di cloud comunitari sicuri e interoperabili e favorire standard aperti che consentano la circolazione dei dati senza vincoli di lock-in. Al contempo, mira a incentivare la ricerca applicata in settori di rilevanza prioritaria, come l’intelligenza artificiale e il quantum computing, mantenendo però un controllo strategico sui risultati. Come appare evidente dalle più rilevanti proposte di Eurostack elaborate, ciò non implica l’introduzione di meccanismi protezionistici, bensì la perseguibilità di piani alternativi, capaci di assicurare condizioni di maggiore competitività, maggiore adattabilità agli scenari in rapida evoluzione e di indipendenza strategica, sulle infrastrutture e le informazioni. Certamente meritano di essere letti con attenzione il pitch #Eurostack: European Strategic Sovereign Digital Infrastructure, scritto in maniera partecipativa da Robin Berjon, Cristina Caffarra, Francesco Bonfiglio, Vittorio Bertola, Sebastiano Toffaletti, Kai Zenner ed altri, e il report EuroStack – A European Alternative for Digital Sovereignty, coordinato da Francesca Bria, Paul Timmers e Fausto Gerone e commissionato dalla Bertelsmann Stiftung. In Commissione ITRE del Parlamento Europeo, il tema della sovranità tecnologica e digitale – dalla sostenibilità energetica al controllo delle infrastrutture fisiche – è certamente all’ordine del giorno, benché con priorità e prospettive differenti, grazie all’azione, purtroppo non sempre congiunta, di eurodeputati come Alexandra Geese, Michał Kobosko o Elena Sancho Murillo. Ciò che è certo è che, in un’era di instabilità profonda e di radicale trasformazione delle dinamiche della competizione geopolitica ed economica, ripensare le implicazioni e le conseguenze derivanti dalle scelte di gestione degli asset strategici non è semplicemente una possibilità, ma una necessità improcrastinabile.

Il pilastro nascosto: pluralismo e ruolo strategico delle PMI

In questo scenario, come spesso accade, si rischia di trascurare, per difficoltà di rappresentanza o per frammentazione delle voci, un aspetto non solo rilevante, ma fondamentale, in una riflessione ampia sulla sovranità digitale: il contributo necessario delle piccole e medie imprese (PMI).

Dalle analisi condotte dalla European Digital SME Alliance emerge come le PMI rappresentino circa il 99% dell’ecosistema imprenditoriale digitale europeo, coinvolgendo approssimativamente due terzi dell’occupazione complessiva nel settore. Al di là della retorica, non di rado strumentalizzata in maniera inefficace, questi numeri raccontano un intero sistema di micro-innovazioni diffuse, capaci di radicarsi nei territori, di animarne il potenziale imprenditoriale, di alimentarne i distretti informali di ricerca applicata, per affrontare problemi concreti.

In un’epoca come questa, in cui la concentrazione del potere economico sembra inesorabile, portando a parlare di vere e proprie forme di “imperialismo”, come nella bella ricerca “The GAFAM Empire”, condotta dal Density Design Research Lab del Politecnico di Milano e Tactical Tech, le PMI sembrano talvolta apparire quasi come un baluardo di pluralismo e resilienza. Il loro impatto, diretto e indiretto, non si limita infatti semplicemente a produrre soluzioni di nicchia, che temporaneamente sfuggono alle piattaforme globali, ma permette di arricchire la biodiversità imprenditoriale, preservando competenze specifiche e nutrendo settori che, altrimenti, finirebbero per rimanere schiacciati dai colossi del tech.

Basti pensare, ad esempio, al potenziale delle PMI nel settore dell’IA, con applicazioni e segmenti di sviluppo maggiormente adattabili alle reali esigenze del mercato: chatbot specializzati e settoriali, algoritmi di ottimizzazione per la logistica ad alta adattabilità, sistemi di visione artificiale applicati alla manifattura, all’agroalimentare, al patrimonio culturale. Data la prossimità territoriale, certamente si tratta di proposte vicine ai bisogni reali del tessuto economico, anziché indotte da meccanismi di persuasione del mercato, con tempi di implementazione ridotti e con una maggiore aderenza ai valori reali, tangibili, capillari, di responsabilità e privacy.

Chiaramente, per assicurare spazio a un contesto come questo, di costante fermento, è necessario non solo un cambio di paradigma culturale, ma anche l’implementazione di nuove strutture di supporto. Le PMI, infatti, vengono spesso frenate da tre fattori: l

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  • a difficoltà di accesso ai capitali,
  • la frammentazione normativa
  • e l’inefficacia dei sistemi di rappresentanza nel dialogo con i policy maker di settore, l’assenza di canali sufficientemente dinamici per fare rete.

Se l’Europa vuole veramente scommettere su un futuro di sovranità digitale, deve capire, anche in un momento critico come questo, come mettere a sistema i propri fondi di investimento e i propri orizzonti di pianificazione economica, per finanziare laboratori congiunti e cluster di innovazione che aggreghino concretamente PMI, università e grandi player nazionali, convertendo gli spazi di frammentazione in spazi di aggregazione strategica e rendendo più facile la scalabilità delle soluzioni e l’accesso ai mercati.

Evidentemente, questa sinergia tra iniziativa pubblica e iniziativa imprenditoriale è cruciale. Pensiamo alle strategie di vera open innovation, in cui PMI e grandi aziende possono collaborare allo sviluppo di progetti di ricerca avanzata, ad esempio di IA applicata. Pensiamo ai Data Spaces promossi dalla Commissione Europea, in una logica sempre più ampia e consolidata di cooperazione strategica, in cui i dati di interi settori (mobilità, energia, sanità) vengono condivisi in un ambiente regolato, favorendo così la nascita di servizi digitali di prossima generazione. Se l’idea è dunque quella di costruire dall’interno un nucleo di competenze e asset tecnologici che non abbia bisogno di passare costantemente dalle grandi piattaforme extraeuropee, per competere o anche semplicemente per esistere, certamente non si può prescindere da un ruolo fondamentale – oseremmo dire “strutturale” – delle piccole e medie imprese. Sebastiano Toffaletti, Segretario generale della European Digital SME Alliance, evidenzia con chiarezza l’interdipendenza strategica tra una visione di sovranità tecnologica e il futuro di uno dei comparti più rilevanti dell’economia digitale: “Le PMI tecnologiche costituiscono la spina dorsale dell’ecosistema digitale europeo. Come indicato nella strategia EuroStack, sono da un lato sviluppatrici e dall’altro beneficiarie di un’infrastruttura tecnologica sovrana europea.” 

La prospettiva espressa parla chiaramente della necessità di riconsiderare lo stesso punto di vista alla base delle strategie pluriennali di investimento e dei piani industriali comunitari. “Sviluppatrici, perché, mettendosi in rete attraverso protocolli di interoperabilità e API condivise possono costruire sistemi complessi, garantendo reattività e innovazione. Allo stesso tempo beneficiari, perché un’infrastruttura digitale pubblico-privata potrebbe garantire opportunitá inedite alle PMI, che potrebbero offrire servizi ed innovazione su un layer tecnologico condiviso, senza subire la logica estrattiva e il lock-in degli ecosistemi centrati sulle Big Tech americane”.

Non una prospettiva di contrasto, né di protezionismo, ma di lungimiranza che, sulla base di un ripensamento delle infrastrutture, può garantire alle politiche digitali ed economiche europee una vera autonomia strategica ed industriale.

Indicazioni operative per dare forma a una nuova stagione di sovranità digitale

Provando a riassumere le proposte delle due visioni di Eurostack, integrandone la visione in una logica maggiormente centrata sul punto di vista delle PMI, proviamo a definire, in maniera semplificata, alcuni pilastri strategici che, a partire dalla nostra esperienza pluriennale nel settore, consideriamo imprescindibili.

Da mercato a sistema di conoscenza

L’idea di una sovranità digitale europea non deve quindi essere percepita come un astratto retaggio nazionalista, né come un orpello normativo utilizzato come un mero ostacolo di percorso per contrastare l’avanzata delle Big Tech. Dovrebbe, piuttosto, essere percepita ed implementata come una visione lungimirante, che mira a recuperare un principio di equilibrio tra i vari attori dell’innovazione. La posta in palio, com’è evidente, va ben oltre l’aspetto puramente economico, ma riguarda la capacità sociale di stabilire, collettivamente, le condizioni per un futuro inclusivo, competitivo e tecnicamente solido.

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Ciò si potrebbe – si dovrebbe? – tradurre, in ultima analisi, nella costruzione di un sistema di conoscenza e produzione in cui l’Europa non sia un semplice consumatore passivo di tecnologie altrui, ma un protagonista capace di orientare la ricerca, di contribuire a definire standard globali, per proteggere e promuovere i valori sociali e culturali su cui la nostra concezione dello sviluppo è stata fondata. La strada per raggiungere questo obiettivo passa necessariamente attraverso la definizione di un nuovo patto di fiducia fra istituzioni, imprese e cittadini, capace di riconoscere il ruolo delle PMI come laboratori capillari di innovazione. Passa attraverso il riconoscimento della necessità di un quadro infrastrutturale e normativo che consenta all’Unione, in maniera coerente e consolidata dalla convergenza di visioni, di affermarsi come potenza tecnologica lungimirante.

Se saremo in grado, concretamente, di combinare l’agilità e la creatività delle piccole e medie imprese con la ricchezza di un mercato unico di oltre 400 milioni di persone, potremo non solo difendere, ma ricostruire un equilibrio che favorisca la diversità e la qualità, limitando l’egemonia di pochi colossi e favorendo una prospettiva strategica più rilevante e certamente più adattabile all’imprevedibilità del futuro di breve e medio termine. Solo a quel punto, solo con queste condizioni, potremo davvero parlare di un’Europa digitale sovrana: non chiusa in se stessa, ma sempre più cosciente del proprio ruolo, capace di negoziare da una posizione di forza, in un mondo tecnologico sempre più complesso ed esigente.



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