Tra difesa e coesione, il futuro dei fondi Ue e il ruolo delle regioni


Quei 74 miliardi di euro servirebbero a colmare i divari regionali. Ma per ora giacciono inutilizzati, e già si attende con preoccupazione la riforma della programmazione per il nuovo settennato 2028-2034. Forse le risorse saranno meno, ma dovranno essere meglio allocate e spese

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Il progetto di riarmo dell’Ue prevede con certezza un fondo comune da 150 miliardi e poi rimanda la scelta ai singoli paesi se fare più debito nazionale o, in alternativa, utilizzare parte dei fondi di coesione. L’Italia ha già detto di no, ma i fondi di coesione attuali giacciono inutilizzati e già si attende con preoccupazione la riforma della programmazione per il nuovo settennato 2028-2034.

Non tutti sanno che le amministrazioni pubbliche non devono spendere solo i fondi del Pnrr ma anche i Fondi di coesione europei, il Fondo di sviluppo regionale (Fesr) e il Fondo sociale plus (Fse+), Fondo di sviluppo rurale (Feasr). Nel bilancio Ue 2021-2027 sono stati previsti oltre 392 miliardi di euro di fondi di coesione, di cui 38 destinati all’Italia che, sommati al cofinanziamento nazionale, raggiungono il totale di 74 miliardi euro. Le regioni e i ministeri attraverso i cosiddetti “programmi operativi” ci finanziano di tutto: dalle politiche scolastiche allo sviluppo locale, servizi, incentivi alle imprese, infrastrutture. Le regole di assegnazione sono a favore del sud. 

 

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Il funzionamento dei fondi di coesione è molto diverso dal Pnrr, i programmi operativi sono ancora misurati sulla spesa e i conti si fanno solo alla fine in prossimità della scadenza prevista per il 31 dicembre 2027. In questo momento le risorse sono polverizzate in oltre 70 programmi a maggioranza regionali e rimangono in secondo piano, oscurati dal Pnrr. Al 31 dicembre 2024, risultavano attivati progetti per 12,6 miliardi di euro, il 17 per cento del totale. La spesa effettiva è ferma a 3,4 miliardi, il 4,6 per cento. E solo per merito delle regioni perché i programmi gestiti dai ministeri sono ancora più fermi. Sarà difficile impegnarli tutti per il 2027. Nonostante  questo, due sono gli elementi che dovrebbero indurre l’Italia a occuparsi fin da subito della nuova programmazione 2028-2034. 

Il primo è che il Dispositivo di ripresa e resilienza, che ha finanziato il Pnrr, non sarà reiterato. Significa che per la coesione economica e sociale dovremo contare esclusivamente sui fondi europei. Il negoziato sulla nuova programmazione prenderà il via quest’anno: a settembre la Commissione europea dovrebbe formulare la sua prima proposta e a seguire i pareri del Parlamento europeo

Il secondo motivo è che l’attuale governance della politica di coesione italiana è fortemente decentrata: le regioni discutono direttamente con Bruxelles i programmi operativi. Le prime indicazioni che arrivano dalla nuova Commissione indicano la chiara volontà di cambiare sistema e di non riprodurre i 398 programmi operativi presentati dalle regioni e dai ministeri dei 27 paesi membri. L’indirizzo è quello di riprodurre l’esperienza del Pnrr che, come noto, non si incentra sulla spesa ma è fortemente performance-based, cioè, incardinato in obiettivi da raggiungere. 

Inoltre, poiché oggi il tema della difesa ha reso chiaro che all’Ue servono più risorse, le risorse addizionali potrebbero arrivare da nuovi eurobond a sostegno dei principali capitoli di bilancio. Per le politiche di coesione significa almeno due cose: a) se si dovesse applicare il sistema performance-based agli attuali 398 programmi operativi , Bruxelles si troverebbe a monitorare circa 40 mila obiettivi (ipotizzando che ciascun programma operativo ne abbia un centinaio cadauno); b) le risorse della nuova politica di coesione non sarebbero erogate solo sotto forma di contributi, ma anche di prestiti.

E’ per questo che – se si applica l’approccio Pnrr alla nuova programmazione settennale – non è ragionevole mantenere la governance regionale dei fondi di coesione. Una possibilità è che Bruxelles si interfacci solo con gli stati nazionali, ma ciò vorrebbe dire  esautorare le regioni come è avvenuto in parte con il Pnrr. Eppure i “fondi di coesione” si chiamano così perché si occupano di colmare divari regionali che da noi sono ancora molto marcati. 

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Un’altra possibilità potrebbe essere quella, sempre seguendo le logiche di Bruxelles, di costruire il piano nazionale attorno alle cinque macroregioni italiane: Nord-est, Nord-ovest, Centro, Sud e Isole. All’interno di ciascuna macroarea, poi, regioni e comuni potrebbero svolgere il ruolo di attuatori delle strategie ivi declinate. In qualche modo bisognerà far entrare gli enti locali nella discussione della nuova programmazione perché, con sempre meno risorse proprie, le risorse europee potrebbero rappresentare il principale sostegno dei bilanci regionali e locali. Magari i fondi saranno meno, ma comunque dovranno essere molto meglio allocati e spesi.
 





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